mercoledì 21 settembre 2011

LA VERTIGINE DELLA LIBERTÀ

MI CHIEDO se sia ancora possibile spiegare a un ragazzo di oggi, che di lui sa ben poco, perché Walter Bonatti è stato uno dei più grandi italiani di sempre. Mi chiedo, soprattutto, se sia ancora possibile spiegarlo a noi stessi. Dovrei partire da una parola che è ardua da maneggiare già in sé, e nei nostri anni ha quasi perduto asilo. Questa parola è purezza. Una purezza cercata salendo in parete - l'ascesi dell'alpinismo, la terra che prova a farsi cielo - e selezionando i pochi mezzi "etici" e dunque leciti per salire: piedi, mani, corpo, chiodi, sguardo, in cocciuta antitesi con ogni artificio tecnico e ogni intrusione del marketing.
La purezza di chi decide sempre da solo cosa fare e perché farlo. Dove andare e perché andarci. Nessuno mandò mai Bonatti. Fu sempre lui che andò. Dopo purezza, anzi insieme a purezza, viene libertà. Una libertà intuita da bambino, alla fine degli anni Trenta, guardando le Alpi dagli argini del Po, sognando di salirci, arrampicandosi sui pioppi per vederle meglio, e cominciare a guadagnare qualche metro sul Ground Zero della vita. Provate a immaginare, pochi anni dopo, tra le macerie della guerra, un giovanissimo operaio della Falck che consuma l'intera settimana di lavoro smaniando per raggiungere, di domenica, le montagne più vicine (la Grigna, che con il Bianco è stata la sua patria). «Da una parte avevo la natura, avevo la libertà. Dall'altra la costrizione senza limiti di una società che mi offriva solo delusioni e massacri. Dormivo sul balcone per abituarmi al freddo». Treni notturni per arrivare sotto la parete alle prime luci dell'alba. Quasi sempre da solo.
Solitudine è la terza parola. Mentre prorompe la società di massa, e tutto si costruisce e si disfa attorno ai comportamenti collettivi, Bonatti cerca e trova la propria misura, il proprio valore, appeso a una parete, giorno e notte, con il proprio respiro e il battito del cuore a segnare il tempo. Sotto di lui, nella caligine, la Pianura padana con le sue fabbriche,i capannoni, le prime autostrade, i cartellini da timbrare, il mondo dal quale Walter era fuggito. Non per asocialità (ha avuto molti amici, leggeva molti giornali, si è sempre interessato di politica e negli ultimi anni provava sbalordimento e disgusto, come tanti, per la situazione del nostro paese), ma perché ci sono persone che trovano solo dentro di sé il vero campo di battaglia.
In solitaria e d'inverno, sfidando lo strapiombo nel gelo, sono le sue tre massime imprese alpinistiche (Cervino, Eiger, Jorasses), solitaria è stata la sua lotta implacabile per ottenere, cinquant'anni dopo, la verità sulla spedizione italiana
al K2, solitarie le sue successive esplorazioni nei deserti, nella grande foresta pluviale, in mezzo ai ghiacci, sull'orlo dei vulcani. Titanismo, narcisismo, superomismo sono le accuse che ogni grande alpinista è abituato a fronteggiare.
Ma la solitudine, quando sia una regola e non un vezzo, è anche altro ed è certamente molto di più: costringersi ad affrontare se stessi, senza scampo, senza vie di fuga.
L'ultima parola per cercare di raccontare Bonatti, e forse quella definitiva, è natura. Centinaia, migliaia di immagini di Walter, a partire dalle remote riprese in bianco e nero del telegiornale (1965) che cercava di individuarlo sulla Nord del Cervino, sono immagini di natura. Lui, l'uomo, anche se ha il fisico e la
chiarezza di sguardo dell'eroe classico, ne è appena un frammento, l'ospite fragile e orgoglioso, il palpitante testimone che trova senso, libertà, misura solo al cospetto di quella magnificenza. «Ogni volta che vado sul Bianco, sono un figlio
che torna al Padre». Nel secolo in cui l'uomo ha cominciato a perdere la natura, e forse anche a perdere natura, l'epopea di Bonatti (ciò che ci fa parlare di lui, oggi, con il cuore gonfio di rimpianto, di amicizia e di infinita gratitudine) è l'epopea della natura incoercibile, invincibile, e a noi uomini destinata a sopravvivere. L'alpinista, che è soprattutto un agonista, conta le cime conquistate e le chiama vittorie. Ma sa che a vincere è sempre la montagna, che ci sovrasta smisuratamente nello spazio e nel tempo, che ci precede e ci sopravviverà non di pochi anni (quanti ne dura la nostra breve passeggiata), ma di intere ere geologiche. Bonatti ha misurato e raccontato quelle infinità, quelle vertigini, come pochi al mondo, e nel momento stesso in cui lo ammiravamo sulle cime, lo sentivamo due volte fratello: nell'orgoglio della vittoria e nella fragilità estrema di quell'uomo in parete, di quel puntino vivo sull'eterno.

Michele Serra
La Repubblica 15-09-2011

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